Patrizia De Luise interviene sulla drammatica situazione dei negozi e del commercio sulle pagine de La Stampa.
Ecco l’articolo pubblicato sul quotidiano in edicola lunedì 21 febbraio.
L’onda lunga della pandemia sul commercio è arrivata ora. Ora che i sostegni pubblici sono finiti, le rate dei mutui non sono più congelate e i consumi non sono ancora ripresi, tra la coda della pandemia, abitudini di vita cambiate forse per sempre e l’impennata dell’inflazione nel Paese degli stipendi che non aumentano mai. Pesantissimi i numeri di Confesercenti, elaborati a partire dai registri camerali: nel 2021 hanno chiuso quasi 58 mila tra negozi, bar, ristoranti e attività ricettive. Uno ogni dieci minuti, circa 160 al giorno. Le riaperture si fermano a 39mila e dunque il saldo è negativo di quasi 19mila unità. L’impennata rispetto al 2019 (il 2020 tra lockdown e mutui congelati aveva fatto storia a sé, con numeri in equilibrio) è netta: il saldo era stato di -12mila.
In valori assoluti, la sofferenza più grande è per il commercio al dettaglio, con oltre 3mila chiusure al mese nel 2021, per un totale che sfiora quota 38mila, a fronte di 28mila aperture. Male anche bar e ristoranti, vittime della fuga dai locali affollati e dello smart working che ha svuotato le città, con 17mila serrande abbassate, quasi il doppio delle 8.900 aperture. Rapporti simili nel turismo, il grande malatodellapandemia:3milachiusure tra hotel e strutture ricettive, 721 tra agenzie e tour operator e un bilancio del settore, al netto delle aperture, negativo per oltre 1.100 imprese.
«Omicron per noi è stata un lockdown di fatto, perché le limitazioni non erano così pesanti ma il turismo è rimasto bloccato, gli uffici chiusi e la gente è uscita pochissimo – commenta Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti -. I numeri sono drammatici, parliamo di 58mila famiglie in difficoltà, a cui aggiungere i dipendenti. Nel 2020 c’erano i ristori, che certo non bastavano a compensare il disastro davano ossigeno. E quando facciamo i paragoni con il periodo pre-Covid, ricordiamo sempre che il 2019 non era stato certo un anno positivo: quindi siamo ben al di sotto di livelli già bassi. Ora è decisivo che il governo proroghi le moratorie fiscali e creditizie, altrimenti altre migliaia di imprese non reggeranno».
L’orizzonte della fine della pandemia non basta a vedere il sereno. Da una perché chi è allo stremo rischia di cadere prima. Dall’altra perché le abitudini di consumo sono cambiate e none detto che torneranno agli schemi passati, anzi. Da Netflix che batte il cinema (con annesso “taglio” della tappa in pizzeria) ad Amazon preferito ai due passi in centro per andare in un negozio, l’abitudine al digitale si è consolidata: secondo l’EyFu- ture Consumer Index, il 63% degli italiani dice che i cambiamenti di vita scattati nei mesi delle restrizioni sanitarie ora sembrano normali (per il 57% è ora abituale cucinare a casa più di prima e non andare al ristorante) . E poi vanno aggiunte altre dinamiche, tutte a svantaggio del commercio tradizionale: il 72% degli italiani si aspetta di non migliorare a breve la propria situazione finanziaria, il 32% considera il rispetto del pianeta la priorità nella scelta degli acquisti, il 45% pensa che nel prossimo futuro potrà comprare solo l’essenziale, il 36% dice che ridurrà gli acquisti di oggetti fisici perché non più necessari. E la sensibilità green che orienta i consumatori rischia di trovare impreparati i negozi tradizionali.
«Noi continuiamo a credere che non potranno essere cancellati i bisogni di socialità, di viaggiare, di gratificarsi entrando in un negozio a toccare oggetti che ci piacciono – aggiunge De Luise-. Tutti noi abbiamo necessità di riappropriarci della nostra vita. Poi è chiaro che la sfida del digitale e dei nuovi modelli di consumo non può essere elusa, dobbiamo investire molto nella formazione. Politica, associazioni di categoria e imprese dovrebbero, tutte insieme, ridisegnare le nostre città tenendo insieme le esigenze vecchie e nuove».