Dal 1° luglio è iniziato il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea. Il premier Renzi ha appena tenuto a Strasburgo il suo discorso programmatico scandito dalle parole “senza crescita non c’è futuro”. Presidente, cosa chiedono le imprese torinesi ed italiane all’Europa?
“Le richieste, dal punto di vista dei singoli provvedimenti sono tante, ma si possono sintetizzare in una: bisogna impostare una politica di deciso rilancio dell’economia, mitigando il rigore di questi anni. La giusta attenzione all’equilibrio dei conti pubblici non può continuare a generare crescenti difficoltà per tanti cittadini europei: i risultati delle ultime elezioni sono il segno di questo disagio. Tanto più che la ricetta del rigore a tutti i costi non risolve gli stessi problemi che dice di volere risolvere: se l’economia arranca, neppure il Pil si riprende e ulteriori tagli non fanno che aggravare la situazione, in una spirale perversa che dobbiamo spezzare. In Europa il clima pare essere in parte cambiato, anche se finora siamo solo agli auspici. Aspettiamo una vera politica di rilancio: se la presidenza italiana ha un senso, sta proprio nel favorire queste politiche.
“Bisogna però riconoscere che l’Italia non è completamente a posto nei confronti dell’Europa. E non mi riferisco alla stucchevole retorica dei “compiti da fare”: quei “compiti” hanno portato alla più lunga recessione che il nostro continente ricordi dalla fine della seconda guerra mondiale. Mi riferisco invece al fatto che il nostro Paese – per inefficienze e limiti tutti suoi – non riesce neppure a impiegare gran parte dei fondi europei che gli spettano e quando li impiega lo fa spesso in modo poco efficace. Eppure si tratta di somme importanti, che potrebbero dare una grossa mano all’economia”.
Qual è il suo giudizio sui primi mesi di lavoro del governo? E quali sono, secondo Lei, gli interventi prioritari per rimettere stabilmente il Paese sul sentiero della crescita?
“Per quanto riguarda l’Italia, siamo ancora in attesa di un coraggioso intervento di alleggerimento della pressione fiscale su famiglie e imprese. Confesercenti ha dato atto al governo che quella degli 80 euro è stata una mossa giusta. Ma non si può pensare che da sola possa risolvere la crisi di reddito che colpisce drammaticamente tanti italiani, con i riflessi sulla loro capacità di spesa che le nostre imprese ben conoscono. Se le famiglie non spendono, in compenso lo Stato spende spesso male: gli studi di Confesercenti hanno più volte dimostrato che c’è ancora una vasta area di spesa pubblica improduttiva da aggredire con decisione. L’altra grande sfida è quella di rendere più efficiente il ‘sistema Paese’: dalla burocrazia, alle infrastrutture, alla giustizia si somma una impressionante serie di vischiosità e rallentamenti che danneggiano le imprese e la nostra competitività. Anche in questo caso, per ora abbiamo sentito poco più che annunci. Ma il tempo non è molto. Imprese e famiglie aspettano segnali forti e inequivoci sul fatto che davvero si stia ‘cambiando verso’”.
E’ appena entrato in vigore l’obbligo di accettazione di pagamenti via bancomat e carte di credito per i titolari di attività commerciali e professionisti: un intervento ‘pesante’ che si trasformerà in un costo aggiuntivo di circa 5 miliardi l’anno per le imprese ma non cambierà di fatto le abitudini di pagamento italiane, come dimostrato da un nostro recente studio. Cosa bisogna fare, secondo Lei, per favorire l’uso delle transazioni elettroniche e ridurne i costi?
“In effetti, il provvedimento pone a carico delle nostre aziende un’altra incombenza non certo leggera in un momento in cui le difficoltà non mancano. Inoltre, gli alti costi delle commissioni sulle transazioni rappresentano, specialmente per le piccole aziende e per categorie come tabaccai e benzinai, un altro non indifferente onere. Sia chiaro: la possibilità di incrementare le transazioni elettroniche è in sé positiva. Sono invece inaccettabili i loro costi proibitivi. Potrebbe essere utile immaginare un meccanismo di tipo premiale per i commercianti che utilizzino il Pos: si potrebbe introdurre, ad esempio, uno sgravio fiscale a fronte dei maggiori oneri sopportati per la transazione. Credo inoltre che, come associazione, dovremmo aprire – a livello locale e nazionale – un duro contenzioso con il sistema bancario sul problema dei costi. Quanto agli effetti del provvedimento, da un’indagine che Confesercenti ha condotto a Torino risulta che – in assenza di sanzioni – un buon numero di commercianti (salvo che non lo avesse già) non ha ancora installato il Pos: specialmente in alcune categorie, come ad esempio gli ambulanti, la presenza dell’apparecchiatura è assolutamente sporadica”.
Il Governo ha mostrato apertura sulla questione della deregulation degli orari commerciali che mette a rischio quel grande patrimonio economico, culturale e sociale rappresentato dall’impresa diffusa e dal commercio di vicinato. Cosa si può fare di più, secondo Lei, per contrastare il fenomeno della desertificazione urbana e difendere e valorizzare i centri urbani delle nostre città?
“Intanto diciamo che, in ogni caso, l’attuale normativa va superata: i dati dimostrano che non è stata in grado di raggiungere le stesse finalità di incremento dei consumi per cui era stata concepita. In compenso, ha rappresentato un ulteriore colpo per negozi e mercati. Nel biennio 2012-2013 le vendite nel dettaglio cosiddetto tradizionale sono diminuite di ben 5 miliardi, neppure lontanamente compensate dai 2 miliardi in più della grande distribuzione, alla quale dunque è stato fatto l’ennesimo regalo. Nello stesso periodo, il saldo chiusure/aperture è stato di negativo di 38.000 unità, e in questa classifica Torino è purtroppo nelle prime posizioni. Dunque, non è dilatando giorni di apertura e orari che si rilancia l’economia. Ben venga, allora, il progetto di legge di modifica della deregolamentazione degli orari commerciali. Il testo è frutto anche della proposta di legge di iniziativa popolare per la quale Confesercenti ha raccolto le firme. Lo consideriamo perciò un primo passo nella giusta direzione, anche se non ricalca completamente la nostra proposta.
“Detto questo, bisogna rilanciare con forza il ruolo non solo economico, ma anche sociale, di negozi e mercati: rappresentano sicurezza, identità e vivacità per vie e quartieri, anche in termini di attrazione turistica e di miglioramento della qualità urbana. Dunque, chiediamo alle amministrazioni locali un contesto urbano favorevole dove operare e il rispetto del nostro ruolo. Il modello delle grandi strutture che tutto fagocitano non può rappresentare il futuro del commercio: rispetto a supermercati e ipermercati – la cui presenza è già ora eccessiva – chiediamo parità di condizioni e soprattutto la fine delle tante rendite di posizione, compresa quella rappresentata dalla totale deregolamentazione di orari e aperture.
“C’è, infine, anche a livello locale, la necessità di alleggerire il peso del fisco: anzi, i tributi locali negli ultimi anni sono aumentati più che quelli nazionali. A Torino abbiamo recentemente ottenuto una riduzione della Tari di quasi l’11% per la ristorazione e gli ambulanti alimentari e di oltre il 6% per i bar. Un buon risultato, che però non basta. È l’intera tassazione locale che va rivista, a cominciare da quella vera a propria assurdità rappresentata dall’Irap. Pur tra le immense difficoltà di questi anni, le nostre imprese hanno continuato a impegnarsi e a produrre ricchezza per il Paese, mentre tantissime altre hanno pagato la crisi con la chiusura. Spetta ai pubblici poteri – locali e nazionali – riconoscere questo impegno e agire di conseguenza”.